L’importanza di essere Forte

Presidente del gruppo alberghiero luxury che porta il suo nome, Sir Rocco

si racconta: “il nostro lavoro non si può fare in fretta”

Lo incontriamo nella sua “comfort zone”, all’interno dell’Hotel de Russie, ovvero la seconda struttura che testimonia l’ingresso della sua attività in Italia, dopo il Savoy di Firenze. Per la Capitale è un luogo iconico, a due passi da piazza del Popolo e poco distante da piazza di Spagna. Una luce dorata filtra dal cortile che affaccia sul giardino segreto ideato dal Valadier ai primi dell’Ottocento. Pura bellezza.

Rocco Forte, presidente del gruppo alberghiero ultralusso che porta il suo nome, entrato nella grande famiglia della Federalberghi lo scorso ottobre, si racconta in un’intervista con tono pacato. Ha il piglio di chi ha vinto sempre le sue partite, ma non smette mai di giocare in attacco.

 

Sir Rocco, lei ha un nome che è un brand. Come si vive questa condizione? E' un peso o un vantaggio?

Da un certo punto di vista è un vantaggio. Perché quando le persone vedono me, pensano agli alberghi che ho; qualsiasi cosa io faccia, gli albergatori penseranno comunque che sono proprietario degli alberghi e che magari vorrebbero visitarli. Questo effetto dipende anche dal fatto che si tratta di un’azienda di famiglia, che ne porta il nome, e questo è molto apprezzato. Nel gruppo, mia sorella Olga lavora con me sin dall’inizio della nostra impresa, e ora ci sono i miei figli. Ci facciamo vedere negli alberghi, il personale ci conosce, sa come la pensiamo, capiscono la cultura del nostro gruppo. Non si sentono in una azienda amorfa in cui i principali sono molto lontani, questo aggiunge sempre tanto all’azienda. Personalmente ritengo che, essendo conosciuto nel mio mondo, il fatto che la gente mi fermi per la strada faccia parte del gioco. Se non volessi che fosse così... non avrei chiamato l’azienda Rocco Forte.

Lei ha raccontato di essere partito dal basso con il suo lavoro. Erano altri tempi o dovrebbe essere così per tutti coloro che iniziano questo mestiere?

Sin da quando avevo 14 anni, durante le mie vacanze dalla scuola, per la metà del mio tempo libero ho lavorato nell’azienda di mio padre. Ho fatto il cameriere, il lavapiatti, ho fatto la pulizia delle camere, sono stato in cucina. Da questo punto di vista ho capito che cosa davvero volesse dire lavorare in albergo. E anche come vive il personale che fa questi lavori. Oggi, ad esempio, quando vado in cucina saluto sempre il lavapiatti, so bene che nella gerarchia lui è il livello più basso! Anche con le addette alle pulizie delle camere sono attento; il loro è un lavoro molto duro, non sono a contatto con il cliente come molti altri membri del personale. Allora bisogna dare loro l’importanza che hanno. Poi ho imparato molto il mestiere. E ho anche capito che mi piaceva. Molti vedono la parte brillante degli alberghi, ma la prima cosa che consiglio a chi mi dice che vorrebbe lavorare in albergo è: bene, allora fallo, e cerca di capire se ti piace davvero. Il nostro lavoro è molto particolare, tecnico. Il manager deve conoscere tutto, altrimenti come può dirigere? Deve saper fare lui, per poterlo far fare agli altri.

 

L’ospitalità a 5 stelle è il cuore del vostro business. Che differenze ha riscontrato nella fruizione del lusso tra le varie nazionalità?

A dire il vero il lusso è un prodotto universale. Ovviamente il cliente cinese, il cliente giapponese, il cliente arabo hanno delle particolarità. Vogliono determinate cose; ai cinesi, ad esempio, piace l’acqua calda alla mattina, cose anche banali. Ma alla fine il lusso è il servizio che si dà al cliente, la personalizzazione stessa del servizio, il modo in cui il personale intrattiene l’ospite. Ci deve essere un rapporto anche amichevole. Una volta gli hotel di lusso erano tutti pomposi, anche il personale era un po’ così, se non eri cliente conosciuto eri messo da parte. Quei tempi credo siano passati. Sin dall’inizio volevo effettivamente creare questa atmosfera diversa nei miei alberghi, molto più spontanea, dove il cliente si potesse sentire a proprio agio.

 

Che cosa fa veramente la differenza nel successo di un hotel luxury?

Il posto deve essere bello, arredato con grande gusto, di una certa eleganza. Perché si possono spendere anche molti soldi, con cose esagerate, marmi, materiali preziosi, ma questo non necessariamente riesce a creare l’atmosfera speciale, più particolare, ciò che fa la vera eleganza. La posizione dell’albergo in una città è molto importante, e anche la destinazione. Per esempio, l’operazione che ho fatto io al Verdura Resort in Sicilia è stata più difficile proprio perché non si trattava di una destinazione dove si è abituati ad andare. Se fai un albergo a Saint Moritz allora va tutto bene. Anche se parti da zero, si è comunque in un luogo super frequentato. A Sciacca invece ci andavano in pochi, si può dire. Ma io volevo fare un resort con il golf, dove ci fossero i terreni adeguati a realizzare il campo. Ovviamente, una volta che il marchio è conosciuto e ha una sua reputazione, molti clienti ti seguono. Pensano: il gruppo Forte ha aperto lì, allora vado. L’hotel stesso può fare destinazione. Poi per il successo di un hotel luxury c’è anche il tema dell’investimento: se s’investe troppo, anche se la struttura è gestita benissimo, non ci sarà mai ritorno sufficiente. Adesso c’è il revenue management, cosa che non esisteva quando ho cominciato. In sintesi, significa che non c’è più il prezzo fisso, il movimento dipende dal tasso di occupazione, dagli eventi in programma nelle città e via dicendo. A me non è molto piaciuto questo fatto, ma alla fine il cliente si è abituato e ha accettato.

 

In Italia però c’è molta polemica sui prezzi degli alberghi, dicono che sono sempre troppo alti.

A me piace quando dicono che i prezzi sono troppo alti e l’albergo continua a essere pieno.

 

Il suo gruppo ha investito e sta investendo in Italia. L’ultima acquisizione è Palazzo Castelluccio a Noto. Avete la Sicilia nel cuore o davvero si tratta di una destinazione turisticamente eccezionale?

Sì, è un antico palazzo a Noto da ristrutturare. Se tutto andrà bene credo che verrà aperto nel 2026. L’immobile era già stato risistemato dal proprietario da cui lo abbiamo acquisito. Adesso però si deve trasformare in albergo, ed è ancora un’altra cosa. In quella parte della Sicilia non ci sono tanti hotel di alto livello; Noto è diventato un centro importante, molte persone di ambiente internazionale sono andate a vivere lì o nei dintorni, ora è molto più conosciuto. Questo nostro hotel non sarà grande, avrà trenta camere, molte realizzate come suite, ma resta comunque una struttura piccola. Comunque, se non avessi avuto già degli alberghi in Sicilia sicuramente non avrei fatto questo passo. è un territorio che si presta molto al turismo, la gente è ospitale in modo naturale, come un tempo. Poi le civiltà che sono passate qui dall’Europa hanno lasciato il segno. I paesaggi sono belli, il mare è splendido, il cibo molto buono e vario. Quando ho cominciato con Verdura, tutti mi dicevano: o sei pazzo o hai molto coraggio. Coraggio non l’ho avuto perché non sapevo dei problemi che avrei dovuto affrontare. Forse è stata più incoscienza! L’esperienza del secondo albergo, Villa Igea, è stato più facile gestirla, perché mi conoscevano già.

 

Immaginando le proposte che possano giungere al vostro gruppo, quale criterio di scelta adottate nell’eventuale acquisizione di un hotel?

Quando si comincia dall’inizio, ci vuole un po’ di coraggio e senso  di sfida. Si prende più rischio di quanto si può prevedere. Se togli il rischio non c’è più il capitalismo, quello che manda avanti tutto alla fine. Non sono mai i governi che fanno le cose, ma i privati; in certi casi i governi aiutano, ma a volte invece frenano e fanno arretrare. In Europa si è sviluppata una burocrazia terribile, che è come una mano morta su tutto, rallenta le cose ed è più difficile operare. Sempre più permessi, sempre nuove regole. In Inghilterra ora si è perso quello spirito che c’era durante il tempo della Thatcher: lei aveva reso più libere le imprese, aveva ridotto le tasse e il Paese era andato avanti. Da un certo momento in poi, invece, è andato tutto sempre più giù.

 

Che cosa manca secondo lei in Italia per far funzionare meglio le cose in tema di turismo e di hospitality?

In Italia vi è una burocrazia insostenibile, gestita da persone che si trovano negli stessi posti da una vita, che non hanno mai fatto altro; alla fine, nella maggior parte dei casi non evolvono, non si assumono il rischio: meglio non prendere decisioni che prendere decisioni e sbagliare. In alcuni Ministeri capita che ci siano persone invece venute da fuori, che davvero si impegnano per far fare dei cambiamenti. Credo che ci voglia più gente così. Io ho vissuto in Inghilterra per la maggior parte della mia vita, per cui ho la mentalità un po’ inglese. Dico sempre, qui in Italia: perché non cercate di cambiare il sistema? Ma dicono tutti che il sistema non si può cambiare. L’altra cosa che mi stupisce è che qui vi sono molti fondi di vari tipi, sono risorse sparpagliate nei vari ministeri, allora c’è grande confusione. A volte si dimentica che essi esistono e questi soldi rimangono inutilizzati per anni. Questa è una cosa che si dovrebbe mettere a regime. L’ho toccato con mano perché spesso cerco di finanziare vari progetti, e ogni volta che si valutano le possibilità, si scopre che esiste qualche altro fondo in qualche altro contenitore. Ora con il PNRR hanno dato 50 miliardi da gestire, ma ancora non si capisce bene come verranno utilizzati davvero. Altra cosa sono le leggi sul lavoro: è molto difficile licenziare le persone quando non fanno il loro lavoro. Allora vengono messe da parte. Mettono altri professionisti, ma si crea una brutta atmosfera nelle aziende. Questa situazione, che riguarda un po’ tutta Europa, andrebbe cambiata, secondo me. Alla fine il datore di lavoro ha bisogno di personale e non ne abusa.

 

Le città d’arte italiane sono assalite dal problema dell’overtourism. Venezia ha adottato il sistema della tassa di ingresso. Come considera questa misura?

Sì, è un problema molto difficile da gestire. Anche a Taormina, per esempio, succede che si riempie di turisti oltre misura. è capitato che alcune persone di mia conoscenza, scese in hotel proprio a Taormina, abbiano chiamato il Verdura per scappare e trasferirsi a Sciacca. Questo perché la situazione era invivibile. A Firenze lo stesso. La soluzione adottata per Venezia non può andare bene dappertutto. Pensiamo solo a Roma: come si farebbe a controllare?

 

Passiamo alla tassa di soggiorno: sembra essere la spina nel fianco degli albergatori. Qual è la sua valutazione?

A me non piacciono le tasse di qualsiasi tipo. Una tassa in più è sempre una tassa in più. Ma soprattutto è una spesa che dovrebbe servire a migliorare la situazione di una città dal punto di vista turistico, mentre non sappiamo davvero come viene impiegata. A Edimburgo stanno introducendo la tassa di soggiorno per il 5% degli incassi, Iva inclusa. Allora si va a pagare una tassa su una tassa, è veramente assurdo. Gli alberghi di lusso sono quelli che pagano di più, eppure sono forse quelli che inquinano meno le città. Considerarla comunque in percentuale non è giusto, dovrebbe essere un costo unico, fisso per tutti.

 

Le strutture legate ai campi da golf sono parte della vostra eccellenza, sia in Italia che all’estero. Forse in questo ambito vi è anche un potenziale legato al real estate di lusso?

Si certamente, dappertutto esiste già. Il costo dello sviluppo è talmente alto che l’albergo non può reggere da solo, allora si vende il real estate, le case. A Verdura, infatti, abbiamo già costruito 20 case e ne costruiremo altre. Ma in molti casi il resort non è ancora realizzato quando già si vendono gli immobili. è un modo per spalmare i costi.

 

L’attività dell’albergatore non è legata solo al profitto, si dice che sia un mestiere romantico, perché anche in amore si osa. è vero?

Credo che si debba avere passione per essere albergatore. Non è una cosa da fare in fretta. è un investimento a lungo termine, continuativo. Il prodotto deve rinnovarsi ogni giorno. Allora ci vuole un certo tipo di mentalità. Non è che si costruisce qualcosa, si vende il giorno dopo e si va altrove. Il prodotto viene controllato, perché alla fine è rappresentato dal servizio. Il maggior investimento va fatto sul personale, che è direttamente a contatto con il cliente: bisogna lavorare sulla sua preparazione, deve essere contento, avere passione a sua volta, deve sentirsi protetto dall’azienda. è molto importante l’atmosfera di squadra, la gente deve aver piacere di venire al lavoro la mattina. Questo si traduce in un impegno continuo: non è che si trova il posto, si fa l’albergo e poi tutto va da sé. Io sento la passione per questo lavoro. Ho venduto una parte delle azioni dell’azienda al Fondo Sovrano Saudita, e avrei potuto liquidare tutto e uscire con molti soldi in tasca. Ma ho voluto seguire i miei, sento la responsabilità della gente che è cresciuta con me. Non avrei mai potuto lasciare a metà tutto questo.

 

Che cosa sta pensando di fare, oggi, Sir Rocco Forte? C’è un progetto a breve termine?

Non c’è un progetto nel senso di un albergo diverso. Ci stiamo dedicando a questo esperimento che abbiamo fatto con Rocco Forte House (appartamenti privati luxury in un palazzo settecentesco in piazza di Spagna a Roma, n.d.a.); è una cosa nuova che stiamo sperimentando anche su Milano. Ma a dire il vero sono molto concentrato sul come organizzare l’azienda stessa per vendere il migliore servizio agli ospiti, che devono poter arrivare comodamente da noi. E va anche studiato il modo di proporre l’azienda in maniera innovativa al cliente. Questo è l’obiettivo del mio prossimo anno e mezzo, oltre a quello di aiutare mio figlio che adesso è a capo dello Sviluppo, per allargare la compagnia. Non solo in Italia, dove ormai per noi è abbastanza facile, ma negli Stati Uniti e in altri Paesi europei. Questa sarebbe una nuova impresa.







Pubblicato il 07/27/24